di Vito Antonio Bonanno, segretario generale del comune di Alcamo

Con la recentissima sentenza n. 7 del 23 aprile 2021 l’Adunanza Plenaria del Consiglio di stato ha ritenuto che la responsabilità in cui incorre l’amministrazione per l’esercizio delle sue funzioni pubbliche sia inquadrabile nella responsabilità da fatto illecito, sia pure con gli inevitabili adattamenti richiesti dalla sua collocazione ordinamentale nei rapporti intersoggettivi, quale risultante dall’evoluzione storico-istituzionale e di diritto positivo che la ha caratterizzata.

L’importantissima pronuncia nomofilattica è stata sollecitata da una decisione del Consiglio di Giustizia Amministrativa[1] emessa nell’ambito di un procedimento finalizzato a scrutinare la domanda di risarcimento del danno avanzata da un operatore economico contro l’amministrazione regionale siciliana per il ritardo con il quale si è pronunciata sulla domanda di autorizzazione unica all’istallazione di un impianto di energia rinnovabile, così impedendo l’accesso alla tariffa incentivante prevista dal” Terzo Conto Energia” (d.m. 6 agosto 2010); risulta accertato con efficacia di giudicato che il procedimento di rilascio dell’autorizzazione unica che avrebbe dovuto essere concluso entro 180 giorni, è stato positivamente concluso dopo oltre due anni dalla presentazione dell’istanza e solo a seguito di una pronuncia favorevole al privato da parte del giudice amministrativo, oggetto di giudizio di ottemperanza. Nelle more, per una sopravvenienza normativa è stato modificato il regime giuridico delle agevolazioni attraverso il “Quarto Conto Energia” (d.m. 5 maggio 2011) che ha ridotto la tariffa incentivante rispetto al precedente regime e l’operatore economico ha ritenuto che la realizzazione dell’impianto non fosse più economicamente conveniente e si è rivolto nuovamente al giudice amministrativo, per ottenere il risarcimento del danno emergente e del lucro cessante asseritamente ascrivibili, in termini causali, al ritardato esercizio del potere amministrativo ben oltre i termini fissati dalla legge per la conclusione del procedimento. In particolare, quanto al lucro cessante la ditta ricorrente ha distinto due ipotesi così riassumibili: “qualora, al momento del rilascio dell’autorizzazione unica, permanesse l’interesse all’attuazione del progetto, il minor guadagno, pari alla differenza tra l’importo della tariffa incentivante dal d.m. 6 agosto 2010 (“Terzo Conto Energia”) e quello della tariffa incentivante al tempo del rilascio dall’autorizzazione unica, da calcolare su un arco temporale di 20 anni, corrispondente al periodo di assegnazione delle tariffe incentivanti ai sensi dell’art. 8 del Terzo Conto Energia. Laddove, al contrario, al tempo del rilascio dell’autorizzazione unica, fosse venuto meno l’interesse all’attuazione del progetto in ragione del notevole lasso di tempo trascorso ovvero, a causa di norme di legge sopravvenute, fossero venute meno le condizioni di fattibilità tecnica e la convenienza economico-finanziaria del progetto, ha chiesto la condanna al pagamento dell’intera utilità patrimoniale, pari all’importo della tariffa incentivante stabilita dal Terzo Conto Energia, oltre a tutte le spese e i costi sostenuti per la progettazione e la predisposizione tecnica necessaria, da provare in corso di giudizio” . Dovendo esaminare la domanda afferente al risarcimento del lucro cessante, il giudice d’appello ha ritenuto di deferire all’adunanza Plenaria in sede di nomofilachia alcune questioni afferenti la natura della responsabilità amministrativa in caso di ritardo dell’azione amministrativa e del nesso di causalità in relazione al danno quale conseguenza immediata e diretta di tale ritardo. Sottolinea, in particolare, il CGA che “i punti di diritto sottoposti all’esame di questo CGARS hanno dato luogo in passato a contrasti giurisprudenziali (come è noto, e come meglio ci si propone di illustrare di seguito, talune decisioni del Consiglio di Stato hanno ricondotto la responsabilità dell’Amministrazione allo schema negoziale, ovvero da “contatto qualificato” e, per altro verso, talaltre hanno ritenuto che seppur la stessa sia invece sussumibile sub art. 2043 cc non troverebbe applicazione, quantomeno in materia di interessi legittimi, il combinato-disposto di cui agli artt. 2056 e 1325 cc): sebbene non ci si possa nascondere che la giurisprudenza prevalente sia allo stato orientata in misura largamente maggioritaria su posizioni difformi da quelle prima enunciate, ritiene il Collegio che sussistano elementi per potere pervenire ad una rivisitazione di tali orientamenti in ultimo affermatisi (orientamenti i quali, è bene comunque sottolineare, a loro volta sono pregni di sfumature differenziate, in quanto di volta in volta si è affermato trattarsi di “una forma speciale di responsabilità” – cfr Cons. St., sez. VI, 10 dicembre 2015, n. 5611- ovvero di “natura peculiare e lato sens extra contrattuale” – cfr Cons. St., sez. IV, 3 gennaio 2020, n. 61- ovvero ancora si è ricondotta ad una “responsabilità c.d. contrattuale da inadempimento di una obbligazione di protezione” la responsabilità precontrattuale – cfr Cons. St., sez. V, 2 maggio 2017, n. 1979)”.

Con la pronuncia qui segnalata, l’Adunanza Plenaria ha ritenuto che la responsabilità in cui incorre l’amministrazione per l’esercizio delle sue funzioni pubbliche sia inquadrabile nella responsabilità da fatto illecito, sia pure con gli inevitabili adattamenti richiesti dalla sua collocazione ordinamentale nei rapporti intersoggettivi, quale risultante dall’evoluzione storico-istituzionale e di diritto positivo che la ha caratterizzata.

La responsabilità da inadempimento si fonda, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., sul non esatto adempimento della “prestazione” cui il debitore è obbligato in base al contratto.

Un vincolo obbligatorio di analoga portata non può essere configurato per la pubblica amministrazione che agisca nell’esercizio delle sue funzioni amministrative e quindi nel perseguimento dell’interesse pubblico definito dalla norma attributiva, che fonda la causa giuridica del potere autoritativo. Sebbene a quest’ultimo si contrapponga l’interesse legittimo del privato, la relazione giuridica che si instaura tra il privato e l’amministrazione è caratterizzata da due situazioni soggettive entrambe attive, l’interesse legittimo del privato e il potere dell’amministrazione nell’esercizio della sua funzione. In questo caso, quindi, è configurabile non già un obbligo giuridico in capo all’amministrazione –rapportabile a quello che caratterizza le relazioni giuridiche regolate dal diritto privato- bensì un potere attribuito dalla legge, che va esercitato in conformità alla stessa e ai canoni di corretto uso del potere individuati dalla giurisprudenza. Né la fattispecie in esame può essere ricondotta alla dibattuta, in dottrina come in giurisprudenza, nozione di “contatto sociale”, in quanto, a tacer d’altro, oltre a quanto osservato sulla natura del “rapporto amministrativo”, la relazione tra privato e amministrazione è comunque configurata in termini di “supremazia”, cioè da un’asimmetria che mal si concilia con le teorie sul “contatto sociale” che si fondano sulla relazione paritaria.

Nel descritto paradigma dei rapporti giuridici interessati dal pubblico potere, lo strumento di tutela elettivo e di carattere generale per l’interesse legittimo è quello dell’azione costitutiva di annullamento dell’atto amministrativo.

Tra le forme di tutela ulteriori rispetto a quella di annullamento, già prima della sentenza delle Sezioni unite della Cassazione 22 luglio 1999, n. 500, ha assunto un ruolo di rilievo la tutela risarcitoria, ammessa anche nei confronti del potere pubblico, originariamente sulla base di normative di carattere settoriale -e segnatamente nelle procedure di affidamento di contratti pubblici (art. 13, l. 19 febbraio 1992, n. 142); in materia edilizia, per il danno da ritardato rilascio del titolo a costruire (art. 4, d.l. 5 ottobre 1993, n. 398, convertito in l. 4 dicembre 1993, n. 493, come successivamente modificato) – poi seguite dalle disposizioni a carattere generale contenute dapprima nel d.lgs. n. 80 del 1998 (in parte qua non dichiarate incostituzionali) e nella l. n. 205 del 2000, e poi nel codice del processo amministrativo.

E’ stato dunque introdotto nel diritto pubblico un sistema in cui è devoluto al giudice amministrativo il potere di condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno da illegittimo esercizio del potere pubblico, in una logica eminentemente “rimediale”, e cioè come «strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione» (Corte costituzionale, sentenza 26 luglio 2004, n. 204; § 3.4.1), in quanto tale attribuito al «giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica» (Corte costituzionale, sentenza 11 maggio 2006, n. 191; § 4.3).

L’assetto ora descritto ha trovato una definitiva sistemazione con il codice del processo amministrativo. La «tutela piena ed effettiva» da esso delineata (art. 1, sopra citato) si attua con la concentrazione presso il giudice amministrativo di «ogni forma di tutela degli interessi legittimi» (art. 7, comma 7), e la devoluzione ad esso delle controversie «relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma» (art. 7, comma 4).

Elemento centrale nella fattispecie di responsabilità ora richiamato è quindi l’ingiustizia del danno, da dimostrare in giudizio, diversamente da quanto avviene per la responsabilità da inadempimento contrattuale, in cui, come esattamente sottolinea il giudice rimettente, la valutazione sull’ingiustizia del danno è assorbita dalla violazione della regola contrattuale.

Declinata nel settore relativo al «risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi», di cui al sopra citato art. 7, comma 4, c.p.a., il requisito dell’ingiustizia del danno implica che il risarcimento potrà essere riconosciuto se l’esercizio illegittimo del potere amministrativo abbia leso un bene della vita del privato, che quest’ultimo avrebbe avuto titolo per mantenere o ottenere, secondo la dicotomia interessi legittimi oppositivi e pretensivi. Infatti, diversamente da quanto avviene nel settore della responsabilità contrattuale, il cui aspetto programmatico è costituito dal rapporto giuridico regolato bilateralmente dalle parti mediante l’incontro delle loro volontà concretizzato con la stipula del contratto-fatto storico, il rapporto amministrativo si caratterizza per l’esercizio unilaterale del potere nell’interesse pubblico, idoneo, se difforme dal paradigma legale e in presenza degli altri elementi costitutivi dell’illecito, a ingenerare la responsabilità aquiliana dell’amministrazione.

La condotta attiva del privato può invece assumere rilievo come fattore di mitigazione o anche di esclusione del risarcimento del danno ai sensi dell’art. 30, comma 3, secondo periodo, c.p.a., laddove si accerti «che le condotte attive trascurate(…) avrebbero verosimilmente inciso, in senso preclusivo o limitativo, sul perimetro del danno» (così lasentenza dell’Adunanza plenaria 23 marzo 2011, n. 3, da ultimo richiamata: § 7.2.2). In altri termini, la mancata attivazione dei rimedi procedimentali e processuali, al pari delle ragioni che sorreggano il mancato esperimento degli stessi, non è idonea in sé a precludere la pretesa risarcitoria, ma costituisce un elemento di valutazione che può concorrere, con altri, alla definizione della responsabilità

La necessità che nell’esame della domanda di risarcimento dei danni da illegittimo o mancato esercizio della funzione pubblica sia in ogni caso valutata la condotta del privato costituisce un profilo di peculiarità della responsabilità dell’amministrazione rispetto al modello di riferimento costituito dalla fattispecie generale dell’illecito civile prevista dall’art. 2043 cod. civ., in considerazione della complessa evoluzione che nel tempo, a partire dalla teorica del procedimento amministrativo, hanno subìto i rapporti tra amministrazione e privato in termini di partecipazione per quest’ultimo e di attenuazione della posizione di supremazia dell’amministrazione nell’esercizio della funzione; con conseguenti oneri

Tuttavia, l’onere di cooperazione in parola può essere ricondotto allo schema di carattere generale del «concorso del fatto colposo del creditore» previsto dall’art. 1227 cod. civ., richiamato dall’art. 2056 cod. civ. per la responsabilità da fatto illecito, e più precisamente nell’ipotesi del secondo comma (evocativo di un principio di causalità giuridica, a differenza del primo comma che disciplina il nesso di causalità materiale condotta-evento), per la quale il risarcimento «non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza».

Ricondotta la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi al principio del neminem laedere positivizzato nell’art. 2043 cod. civ., deve escludersi che, nella individuazione e quantificazione del danno, possa operare il limite rappresentato dalla sua prevedibilità.

Assume invece un ruolo centrale l’ art. 1223 cod. civ., anch’esso richiamato dall’art. 2056 cod. civ., secondo cui il risarcimento del danno comprende la perdita subita dal creditore (danno emergente) e il mancato guadagno (lucro cessante) «in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta».

Sotto tale profilo, l’Adunanza Plenaria sottolinea che il dubbio del giudice rimettente si incentra in particolare sulla questione se la sopravvenienza normativa costituisca un fattore causale autonomo, in grado di interrompere il nesso di consequenzialità immediata e diretta ex art. 1223 cod. civ. tra la ritardata conclusione dei procedimenti autorizzativi ex art. 12, d.lgs. n. 387 del 2003 e il mancato accesso al regime incentivante, o – espresso in altri termini – di configurare il ritardo dell’amministrazione come mera occasione rispetto al pregiudizio patrimoniale lamentato dalla società ricorrente, unitamente agli altri dalla stessa dedotti in giudizio.

La questione richiede di precisare innanzitutto che, nell’ambito della dicotomia danno emergente – lucro cessante posta dall’art. 1223 cod. civ., il mancato accesso al regime tariffario incentivante si colloca nel secondo concetto, come peraltro precisato dallo stesso giudice rimettente.

Ciò precisato, l’accertamento del nesso di consequenzialità immediata e diretta del danno con l’evento pone problemi di prova con riguardo al lucro cessante in misura maggiore rispetto al danno emergente. A differenza del secondo, consistente in un decremento patrimoniale avvenuto, il primo, quale possibile incremento patrimoniale, ha di per sé una natura ipotetica. La valutazione causale ex art. 1223 cod. civ. assume pertanto la fisionomia di un giudizio di verosimiglianza (rectius: di probabilità), in cui occorre stabilire se il guadagno futuro e solo prevedibile si sarebbe concretizzato con ragionevole grado di probabilità se non fosse intervenuto il fatto ingiusto altrui. Non a caso in questo ambito è sorta la tematica della risarcibilità della chance, considerata ormai, sia dalla giurisprudenza civile sia dalla giurisprudenza amministrativa, una posizione giuridica autonomamente tutelabile -morfologicamente intesa come evento di danno rappresentato dalla perdita della possibilità di un risultato più favorevole (e in ciò distinta dall’elemento causale dell’illecito, da accertarsi preliminarmente e indipendentemente da essa)- purché ne sia provata una consistenza probabilistica adeguata e nella quale può quindi essere ricondotta la pretesa risarcitoria connessa al regime tariffario incentivante di cui la società ricorrente chiede il ristoro per equivalente.

Tali considerazioni appaiono particolarmente pertinenti nel presente giudizio –e in quelli similari- in cui l’utilità conseguibile con l’originaria istanza di autorizzazione deriva non soltanto dal concreto auspicato svolgimento dell’attività conseguente all’autorizzazione, ma anche e soprattutto dai benefici conseguenti a una diversa e ulteriore previsione normativa, la cui applicazione è devoluta a una diversa amministrazione, competente a verificare la spettanza dei benefici nell’ambito di un diverso procedimento.

Posta questa premessa, con specifico riguardo alla responsabilità aquiliana da fatto illecito, vi è una disposizione specifica in tema di danno-conseguenza che rimette all’«equo apprezzamento delle circostanze del caso» la relativa valutazione (art. 2056, comma 2, cod. civ.). La liquidazione equitativa assume una centrale rilevanza, sul piano tecnico, in tema di quantificazione di danni che si proiettano nel futuro e che non sono determinabili con la certezza propria di quelli verificabili sul piano storico, come invece nel caso del danno emergente. Il che implica, con specifico riferimento alla fattispecie in esame, che non può ritenersi che il danno da lucro cessante, sul piano giuridico, possa equivalere a quanto l’impresa istante avrebbe lucrato se avesse svolto l’attività nei tempi pregiudicati dal ritardo dell’amministrazione. E ciò perché l’attività non è stata svolta, il correlato procedimento inerente alla sussistenza dei requisiti non ha avuto seguito, e, più in generale, non può darsi per verificato un evento -l’avvio e lo svolgimento per tutta la durata prevista dell’attività di impresa in regime di incentivo- che non si è verificato e che potrebbe essere stato soggetto a qualsiasi sopravvenienza anche di fatto nel corso dell’attività di impresa.

In questo ambito, fermo l’onere di allegazione e prova del danneggiato (artt. 63, comma 1, e 64, comma 1, c.p.a.), anche mediante presunzioni, e l’eventuale espletamento di una consulenza tecnica di ufficio –nel caso in esame già disposta dal giudice remittente- sulla questione propriamente giuridica del rilievo causale attribuibile alla sopravvenienza normativa deve ribadirsi che essa opera nella fattispecie controversa non già come fatto imprevedibile ex art. 1225 cod. civ. – rilevante se la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione da interessi legittimi fosse inquadrabile nella responsabilità contrattuale, quod non come in precedenza chiarito – ma, in ipotesi, come fattore causale autonomo ed in grado di escludere il nesso di consequenzialità immediata e diretta ex art. 1223 cod. civ. tra la ritardata conclusione dei procedimenti autorizzativi ex art. 12, d.lgs. n. 387 del 2003 e il mancato accesso al regime tariffario incentivante.

Occorre in altri termini valutare come operi la sopravvenienza normativa nella sequenza causale produttiva del danno, sul piano –di cui si discorre- della conseguenzialità “immediata e diretta”.

Sul punto l’Adunanza plenaria ha ritenuto che, con riferimento al periodo di tempo anteriore alla modifica normativa che ha soppresso gli incentivi, non sia revocabile in dubbio che sussista un rapporto di consequenzialità che consente di imputare al ritardo della Regione siciliana il pregiudizio patrimoniale subito dalla società ricorrente a causa del mancato accesso agli incentivi tariffari. La regolarità causale che lega i due eventi –ritardo dell’amministrazione nel provvedere e perdita degli incentivi- non può infatti ritenersi recisa dalla sopravvenienza normativa, per la decisiva considerazione che è stato proprio il ritardo a rendere la sopravvenienza rilevante, come fatto impeditivo per l’accesso agli incentivi tariffari altrimenti ottenibili. Lungi dal porsi come mera “occasione” del pregiudizio, il ritardo ne è stata dunque la causa. Con riferimento al periodo successivo alla sopravvenienza normativa, occorre invece stabilire se le erogazioni sarebbero comunque cessate, per la sopravvenuta abrogazione della normativa sugli incentivi, nel qual caso il pregiudizio sarebbe riconducibile alla sopravvenienza legislativa e non più imputabile all’amministrazione, oppure se l’interessato avrebbe comunque avuto diritto a mantenere il regime agevolativo, in quanto la legge, per esempio, faccia chiaramente salvi, e sottratti quindi all’abrogazione, gli incentivi già in corso di erogazione e fino al termine finale originariamente stabilito per gli stessi.

L’imputabilità del danno all’amministrazione regionale è coerente con le funzioni della responsabilità civile ulteriori rispetto a quella tipica di reintegrazione della sfera giuridica patrimoniale contro ingiuste lesioni causate da terzi e cioè: la funzione dissuasiva, di matrice soggettiva e di più antica concezione, che, in coerenza con il precetto fondamentale del neminem laedere e il fondamento etico e di convivenza civile del rimedio risarcitorio, milita nel senso di addossare all’autore di condotte colpose ingiustamente lesive di altrui interessi patrimoniali le relative conseguenze; la più moderna funzione di equa ripartizione dei rischi connessi ad attività lecite ma potenzialmente pregiudizievoli per i terzi (su cui pertinenti considerazioni sono svolte dal giudice rimettente alle teorie dell’aumento del rischio e dello scopo della norma violata), che invece giustifica sul piano oggettivo che le conseguenze economiche sfavorevoli per questi ultimi siano comunque accollate alle medesime attività, quale poste passive ad essa inerenti, secondo il principio cuius commoda eius et incommoda.

Nel caso di specie, l’applicazione del criterio della consequenzialità immediata e diretta enunciato dall’art. 1223 cod. civ. secondo le funzioni ora espresse risulta inoltre coerente con gli obiettivi avuti di mira dal legislatore con la previsione di termini massimi ai sensi dell’art. 2, l. n. 241 del 1990; per cui, se è vero che, nella dinamica dei rapporti giuridici, la sopravvenienza normativa è in sé un factum principis, in grado pertanto di escludere l’imputazione soggettiva delle relative conseguenze pregiudizievoli, nondimeno l’ingiustificato ritardo nel rilascio del provvedimento ingenera – alle condizioni sopra delineate – una responsabilità in capo all’amministrazione coerente con la funzione del termini del procedimento, consistente nel definire un quadro certo relativo ai tempi in cui il potere pubblico deve essere esercitato e dunque è ragionevole per il privato prevedere che sia esercitato. Nel settore della realizzazione degli impianti in questione, poi, a tali considerazioni di ordine generale si aggiunga che il regime incentivante connesso al ricorso a fonti rinnovabili di produzione energetica fa assurgere l’investimento privato a fattore chiave, destinato a ricevere tutela secondo le descritte norme di azione dei pubblici poteri principalmente attraverso la definizione di tempi certi per il rilascio dei necessari titoli autorizzativi. Il corollario processuale del quadro normativo così tracciato è che in un sistema di tutela giurisdizionale effettivo, contraddistinto dalla pluralità di rimedi a disposizione del privato contro l’inerzia dell’amministrazione, quest’ultima sottostà sul piano risarcitorio alla mancata realizzazione degli investimenti nel settore quando questi siano causati dal suo comportamento antigiuridico. In coerenza con la funzione dissuasiva e di equa ripartizione dei rischi tipica del rimedio risarcitorio, e delle regole operative sulla delimitazione dei pregiudizi risarcibili, sopra esaminate, il mutamento normativo, espressivo di un mutato indirizzo legislativo rispetto all’intervento economico pubblico in funzione agevolativa degli investimenti privati, deve pertanto essere considerato un rischio imputabile all’amministrazione quando la sopravvenienza normativa non avrebbe avuto rilievo se i tempi del procedimento autorizzativo fossero stati rispettati.

 

[1] Si tratta della sentenza non definitiva 15,12.2020, n. 1136, est. Molinaro. Dalla lettura della sentenza si apprende, al fine di inquadrare compiutamente la vicenda fattuale, che l’impresa non ha potuto più procedere alla realizzazione del progetto a causa della sopravvenuta normativa, l’art. 65 del d.l. n. 1/2012, convertito con modificazioni, dalla l. n. 27 del 2012 che, a decorrere dal 25 maggio 2012, ha escluso gli impianti fotovoltaici con moduli collocati a terra in area agricola, come quello progettato, dall’accesso agli incentivi statali per la produzione di energia elettrica da fonte fotovoltaica. “In assenza degli incentivi statali predetti, l’iniziativa imprenditoriale, soltanto adesso autorizzata, sarebbe divenuta antieconomica perché si svolgerebbe in condizioni di costante perdita di esercizio non potendo i ricavi remunerare gli elevati costi della tecnologia da impiantare