di Massimo BALDUCCI Nel decreto ministeriale del primo dicembre 2021 del Ministro Brunetta relativo al “Piano Integrato dell’Attività e dell’Organizzazione” ex art. 6 DL 80/2021 (convertito con la legge . 6 agosto 2021, n. 113 ) si utilizza la definizione di “valore pubblico”. Da quel momento fioriscono i corsi di formazione e le consulenze pseudo-professionali sul “valore pubblico”. Urge fare chiarezza. 1.”Valore Pubblico” e public choice La definizione ed il concetto di “valore pubblico” si devono al prof. Mark H. Moore (Creating Public Value, 1997, Boston).Si tratta di un necessario complemento alla teoria della public choice, senza il quale questa teoria non sarebbe stata in grado di rendere conto di comportamenti non esclusivamente razionali ed egoistici. Anche se qui non è la sede per disquisire su public choice e public value in maniera esaustiva, ci sembra opportuno delineare rapidamente i due concetti. La teoria della public choice (che prende le mosse con i contributi di James M. Buchanan Gordon Tallock, The Calculus of Consent, 1962) si propone di spiegare i comportamenti politici applicando ad essi il principio della massimizzazione del profitto proprio della scienza economica tradizionale. Sia qui detto per inciso che tale approccio, sebbene abbia dato luogo a una serie infinita di pubblicazioni, risulta poco utile e arriva un po’ troppo tardi, arriva cioè quando il principio della massimizzazione del profitto viene rifiutato anche dalla teoria economica sulla base della presa di consapevolezza del fatto che l’utile ha una definizione di tipo culturale e che la sua percezione dipende dalle informazioni che si hanno (per un approfondimento sulla public choice cfr il mio M. BALDUCCI; “Entre prescription et description: le dilemme de l’ «Administrative Behavior» de Simon et son impact sur l’ étude des organisations (et sur celles de la public choice) »,Revue Française d’administration Publique, 2009, III). L’approccio della public choice ha dato luogo alle analisi del marketing politico, quelle ricerche che oggi orientano pesantemente il comportamento di molti dei politici di casa nostra. Orbene questa deriva che porta il nostro politico alla rincorsa del consenso va ricondotta ad un errore di fondo della public choice (così come, del resto, della scienza economica tradizionale): la confusione tra descrizione e prescrizione. Fotografare quali siano le preferenze dell’elettorato non dovrebbe portare ad un appiattimento dell’operatore politico su di esse ma dovrebbe spingere l’attore politico a modificarle magari sulla base delle informazioni migliori di cui è in possesso grazie alla sua attività. L’approccio della public choice si trova nella difficoltà di spiegare i comportamenti che potremmo definire “altruistici”, proprio quelli che stanno alla base delle azioni che portano alla creazioni di istituzioni pubbliche e alla base della istituzione pubblica per eccellenza: lo Stato. Tale istituzioni si basano sul meccanismo della solidarietà disinteressata. É d’altra parte noto che lo studio del fenomeno “stato” non ha mai avuto grande fortuna nella cultura anglosassone. Il prof. Moore nel 1997 tenta di riempire questo vuoto e sviluppa il concetto di public value. Le strutture pubbliche si spiegano con il fatto che i cittadini sarebbero gli azionisti che hanno in mano le azioni della struttura pubblica stessa. Tale struttura è dunque chiamata a produrre un utile per i suoi azionisti. Questa non è la sede adatta per affrontare questo tema. Basti qui rammentare che le radici culturali del nostro paese appaiono essere idiosincratiche con questa prospettiva. Qui non va sottovalutato il fatto che nella lingua inglese la parola io viene scritta con la lettera maiuscola sempre. Nella concezione anglosassone le compagini sociali sono solo delle coalizioni di individui che possono liberamente decidere di entrarvi a far parte o di uscirne a loro piacimento. Diverse sono le prospettive che prevalgono da questa parte dell’oceano Atlantico. Da noi l’individuo è spesso percepito come sottomesso al sistema (da cui apprende valori e comportamenti) o è concepito trovarsi in un equilibrio paritetico con il sistema. Questa ultima versione è quella propria del principio di sussidiarietà (per una presentazione tecnico-operativa del principio di sussidiarietà cfr. Il paper collettaneo cui ho personalmente contribuito Definition and limits of the Principle of Subisidiarity, Council of Europe Publishing House, Strasboourg, 1992; si veda anche il mio The European Charter of Local Self- Government and the Principle of Subsidiarity: a new philosophy in the relationship between state and local authorities – Introductory Report, Council of Europe Publishing House, studies and texts no. 50, 1996) , principio che si è venuto affermando a partire da Grotius proprio parallelamente alla affermazione del concetto di Stato. 2.Valore pubblico i PIAO: tra autorità indiscussa e servizio al cittadino Il fatto che nel decreto del ministro Brunetta del primo dicembre 2021 si richiami il concetto di valore pubblico va interpretato. Innanzi tutto va subito evidenziato che da una prospettiva di tecnica giuridica tale richiamo è non solo fuori luogo ma errato e fuorviante. Un decreto ministeriale non può arrogarsi l’autorità di sovvertire i principi della nostra carta costituzionale che fa espressamente riferimento al principio di sussidiarietà e ai principi della nostra tradizione giuridica che riconosce ai poteri pubblici una supremazia insuperabile nei rapporti con i singoli. Il richiamo al concetto di valore pubblico può essere interpretato come il segnale di disorientamento del nostro legislatore alla ricerca di un bandolo della matassa della riforma della nostra pubblica amministrazione. Quello che viene a mancare nell’architettura pubblica del nostro paese è l’architrave della legittimazione della potestà pubblica. Tale architrave si è venuto affermando nei paesi che hanno conosciuto la rivoluzione protestante. In tali paesi il potere del sovrano non poteva più legittimarsi, dopo la riforma protestante, su base religiosa e la funzione dell’apparato di governo non poteva più giustificarsi come preparazione alla vita dell’ al di là. Tale giustificazione doveva diventare giocoforza di natura funzionale e terrena: il potere dello stato si giustificava perché garantiva il Wohlfahrt (da cui l’inglese welfare) , cioè il benessere o, in latino, il commune bonum. Laddove la comunità veniva comunque concepita non come una coalizione di individui ma come un qualche cosa in più rispetto ai singoli individui che la compongono. Basti pensare che Sikkendorf nel XVII secolo teorizzava che lo stato avrebbe dovuto garantire ad ogni cittadino maschio per lo meno una parrucca (su queste tematiche cfr. M. Balducci, Lo Studio della Pubblica Amministrazione, Firenze CLUSF, 1978). Il nostro legislatore evidenzia con lo sproloquio del valore pubblico la necessità di trovare una finalità all’azione pubblica, oramai non più azione amministrativa. Nella nostra cultura quotidiana il fatto che il pubblico funzionario debba concepirsi e percepirsi come al servizio del cittadino è completamente sconosciuto. Non dobbiamo dimenticare che da noi, non solo non si è avuta la rivoluzione protestante, ma che la nostra amministrazione ha consolidato le sue prassi operative negli anni ‘80 dell’ottocento con Crispi, in una fase in cui su ca. 25 milioni di abitanti in Italia avevano il diritto di voto meno di un milione e 400 mila individui, diritto che veniva esercitato da meno della metà degli aventi diritto. La nostra amministrazione si configura come una catena gerarchica in cui il dirigente è concepito come “il signore del servizio” (su questo punto si veda M. BALDUCCI, Etat fonctionnel et décentralisation: leçons à tirer de l’expérience italienne, Bruxelles, Story, 1987) ed in cui i singoli dipendenti sono inquadrati secondo le loro qualifiche che sono definite non dai compiti da svolgere ma dalle “attribuzioni” di cui dispongono (su questo tema rimando a M. Balducci “Fonction Publique en transition: le cas italien”, Revue internationale des sciences administratives, 1982, 3-4) L’obiettivo di semplificare che si pone il governo qui si incrocia con i criteri da usare per vagliare ciò che va mantenuto e ciò che va eliminato. Quindi la semplificazione richiede, a monte, la finalizzazione dell’azione degli apparati, azione che non va più definita come azione amministrativa ma come azione pubblica. Finalizzare significa dare degli obiettivi, integrare l’attività quotidiana verso una qualche finalità. Finalità che, laddove possibile, andrebbe definita in modalità quantitativa (l’impatto/outcome cercato attraverso la realizzazione di outputs/prodotti realizzati a loro volta tramite processi). Bisogna essere consapevole che non sempre è possibile definire la finalità in termini quantitativi, anzi lo è solo raramente. Il perseguimento di obiettivi quantitativi, peraltro, è molto complesso e non può mai essere realizzato contemporaneamente sull’intero spettro dell’attività di un ente ma andrebbe realizzato a spezzoni, dedicando, magari, ogni anno ad una sezione particolare dell’attività dell’ente (cfr, M. Balducci, Valutazione e Controllo, 2014) 3.Semplificazione e finalizzazione dell’azione pubblica Il legislatore ha toccato, sembra in maniera inconsapevole, il nocciolo del problema: per semplificare bisogna avere chiaro dove voglio andare in modo da poter prendere la strada più dritta per la mia meta, senza perdermi in giri contorti e avvolti su se stessi. Il governo con l’art. 6 del DL 80/2021 si era chiaramente illuso di poter procedere ad una semplificazione senza affrontare il problema della finalizzazione, imponendo l’adozione di un solo piano. La semplificazione sarebbe stato il risultato dell’adozione di un solo piano. Il parere del Consiglio di Stato n. 506 del 2022 mette chiaramente in luce che il PIAO non è affatto una semplificazione ma un ulteriore adempimento. Come chiaramente scritto all’art 6 della legge 113/2021 di conversione del DL 80/2021 i piani che vanno integrati nel PIAO non saranno affatto soppressi. Si è in attesa di un DPR che specifichi per ogni piano integrato nel PIAO quali adempimenti restano ancora in vigore. Semplificare significa avere un criterio di scelta cioè sapere dove si vuole andare. Semplificare significa dunque finalizzare. L’art 6 della L. 113/2021 non va in questa direzione. Infatti impone la realizzazione del PIAO dopo l’adozione del bilancio preventivo! Qui vanno subito lanciati due allarmi agli operatori: per gli operatori delle amministrazioni centrali: dovete iniziare a lavorare al PIAO già nella fase di raccolta dei suggerimenti relativi alla messa a punto del DEF prima e della legge di stabilità ; le risorse da spendere dovranno, infatti, essere commisurate agli obiettivi che ci si propone di raggiungere e che andrebbero specificati nel PIAO per gli operatori degli enti locali: richiamato il principio della gerarchia delle norme e la Carta Europea dell’Autonomia locale (ratificata con la legge 439 del 1990, quindi legge rinforzata) per il quale il decreto del Ministro Brunetta va ignorato, il PIAO va messo a punto prima del bilancio preventivo e non dopo; interessante notare che, nella confusione concettuale imperante, nel decreto del Ministro Brunetta del primo dicembre 2021 si indica chiaramente che per gli enti locali il PIAO debba corrispondere al DUP strategico! Qui il problema di fondo cui il legislatore dovrà decidersi a por rimedio è la incompletezza della riforma prevista dalla l. 42/2009 e dai Dlgs 91/2011, 118/2011 e 18/2012, la adozione cioè di una contabilità in cui sul versante della spesa le spese devono essere articolate per destinazione (missione) e non per natura. Là dove questa metodologia è in vigore da secoli ad ogni missione deve essere assegnato in sede di messa a punto del budget preventivo un obiettivo quantitativamente declinato. Ci troviamo a metà del guado: passare ad una contabilità per missioni significa garantire una notevole autonomia agli operatori periferici, autonomia che non trascende in discrezionalità perché condotta ad unità dall’obiettivo da perseguire che funge da collante. In assenza di un obiettivo da perseguire il coordinamento delle azioni degli operatori periferici viene garantito dall’adozione, nell’ambito delle varie missioni,di un articolato per natura della spesa. Per rimanere nell’ambito degli enti locali il DUP prevede che prima di procedere alle previsioni di stanziamenti si proceda alla messa a punto del piano delle opere pubbliche e del piano delle assunzioni. Segno che il legislatore aveva percepito che per programmare le spese bisogna prima programmare che cosa si vuol realizzare con le spese che si intendono realizzare, Qui va lamentato il fatto che vengono ignorate, in fase, di programmazione le spese per il sociale (che oggi sono di gran lunga la maggioranza delle spese correnti di un comune), le spese per la promozione del territorio, le spese per l’aggiornamento del personale. Non pensiamo di essere maligni se vediamo in queste dimenticanze una concezione obsoleta della struttura pubblica, concezione che la confina alla realizzazione di opere strutturali e alla lotta alla disoccupazione tramite assunzioni nel pubblico impiego. Va, da ultimo rimarcato che il piano degli obiettivi, per la normativa vigente, va messo a punto dopo l’approvazione del bilancio preventivo! Per non parlare del fatto che né nel DUP né nel PIAO il programma del Sindaco trova collocazione!!! Qui si tocca uno dei temi di fondo relativi alla necessità di riconsiderare ab imis la nostra amministrazione: la necessità di superare la separazione tra la gestione dell’attività amministrativa e la gestione della spesa. Basti pensare che abbiamo codificato, nella valutazione della performance, la separazione tra la valutazione del raggiungimento degli obiettivi (demandata all’O.I.V.) e la valutazione della spesa (demandata ai revisori dei conti). Come se la performance non avesse niente a che vedere con i costi! Sull’argomento rinvio alla ricerca condotta con il Consiglio d’Europa su cinque Paesi (Italia, Francia, Regno Unito, Germania, Belgio) per nove anni sui meccanismi della performance negli enti locali (Cfr. W. Anello, M. Balducci, Cosa si può imparare dagli altri, scaricabile gratuitamente al seguente link https://www.torrossa.com/en/resources/an/5137760 . 4.Semplificare e coordinare: cosa fare concretamente I programmi che vanno coordinati (non solo e non tanto per semplificare ma per garantire una buona gestione della cosa pubblica, senza scomodare le arzigogolate teorie del “valore pubblico”), secondo il PIAO sono: (i) il PdO (Piano degli Obiettivi previsto dall’art 108 del TUEL), (ii) il POLA (Piano Organizzativo del Lavolo Agile ex art. 263 del decreto-legge n. 34 del 2020), (iii) piano del fabbisogno di personale (ex Dlgs 165/2000 e anche Dlgs 118/2011), (iv) del PTPC (Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione ex dell’articolo 1 della Legge 6 novembre 2012, n. 190). Il PIAO dovrà anche specificare (v) l’elenco delle procedure da semplificare e reingegnerizzare, (vi) le azioni finalizzate a realizzare la piena accessibilità alle amministrazioni nonché (vii) le iniziative volte a garantire la parità di genere e (viii) i meccanismi della gestione della performance ex Dlgs 150/2009. Qui va subito detto che il POLA, il piano per la digitalizzazione l’elenco delle procedure da semplificare e reingegnerizzare devono essere concepiti come un unicum. Vediamo brevemente perché. L’anticorruzione ha dato luogo ad una produzione di documenti veramente esuberante da parte dell’ ANAC il cui valore giuridico e la cui collocazione nella gerarchia delle norme è un mistero. La corruzione si contrasta fondamentalmente in un modo solo: riducendo al massimo (possibilmente a zero) gli snodi in cui qualche funzionario è chiamato prendere decisioni discrezionali. Questa si ottiene proceduralizzando i flussi lavorativi stabilendo per ogni snodo decisionale le norme secondo cui la decisione va presa e trasformando le firme autorizzative a seguito di decisioni discrezionali in firme di assunzione di responsabilità a seguito di una verifica neutra della presenza/assenza deli requisiti necessari alla decisione. L’ANAC ha previsto, in un barlume flebile di lucidità, la mappatura dei processi. L’ANAC ha dimenticato che non basta mappare i processi ma bisogno modificarli per ridurre al minimo gli snodi di decisioni discrezionali. L’anticorruzione si sovrappone quindi alla digitalizzazione ed è esattamente la stessa cosa della reingegnerizzazione dei processi. Lasciamo le relazioni sulla così detta valutazione del contesto ai letterati vogliosi di intraprendere una carriera letteraria. Qui va evidenziato che digitalizzare il lavoro amministrativo non significa fare con il computer le stesse cose che in origine venivano fatte con la macchina da scrivere / word processor e la carta (archivi). Digitalizzare significa proceduralizzare il lavoro in modo che possa essere automatizzato. Il piano del telelavoro (non lavoro agile o smart work che sono cose diverse che possono essere fatte anche senza il telelavoro) rientra in questa tematica. Dalla reingegnerizzazione si possono derivare quasi tutti gli altri obiettivi del PIAO e nel dettaglio: il piano della performance (di quanto aumenterà l’efficienza della macchina proceduralizzandola e informatizzandola?) e il piano di fabbisogno di personale, sia dal punto di vista quantitativo (quanto personale farà risparmiare la digitalizzazione) che dal punto di vista qualitativo (di quali nuove competenze ci sarà bisogno). Il piano formativo segue a ruota. Il piano per favorire l’accesso è scindibile in due tematiche: l’accesso in via telematica e l’accesso fisico. Per l’accesso il via telematica ricadiamo sull’area reingegnerizzazion. Per l’accesso alle strutture fisiche ricadiamo, per quanto riguarda gli enti locali, sul “piano delle opere pubbliche”, piano che manca a livello regionale e locale. Tale assenza sta creando non pochi problemi al PNRR. Resta fuori il piano per raggiungere la parità di genere. Personalmente sono convinto che l’evoluzione del sistema di inquadramento delle risorse umane sarebbe un’ottima occasione per favorire la parità di genere. Concretamente le tappe, non tanto per realizzare il PIAO né per dare vita ad una semplificazione formale e di facciata, ma per gestire oculatamente la macchina pubblica e per orientarne l’azione a degli obiettivi dovrebbero essere: piano della reingegnerizzazione piano delle risorse umane ivi inclusa la formazione piano delle opere pubbliche altri piani relativi ai settori di intervento dell’ente interessato (piano del sociale per i comuni, piano della prevenzione e dell’assistenza territoriale per le ASL etc.) piano della performance il tutto unificato in un piano degli obiettivi unificato budget preventivo (nel caso dell’ente locale DUP). In questo modo si passa da un formale PIANO degli Obiettivi (PdO) ad una sostanziale Direzione per Obiettivi (DpO), con buona pace delle teorie sul valore pubblico idiosincratiche con la tradizione europea della sussidiarietà. 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