di Claudio Fommei, Segretario Generale dei Comuni di Asolo e Trevignano della Provincia di Treviso (Corte d’Appello di Venezia Sez. IV n.2488/2022 pubbl. Il 23/01/2023 a conferma della sentenza di del Tribunale ordinario di Treviso sezione terza civile n. 2122/2021 r.g.a.c. in data 15/12/2021) LA SENTENZA DI PRIMO GRADO La breccia aperta dalla sentenza del Tribunale di Treviso n. 240/2021 a favore dei Comuni, nella controversia che li oppone alle società che gestiscono le infrastrutture di comunicazione elettronica, si sta allargando in modo più consistente con la recente pronuncia di merito della Corte di appello di Venezia. Ricordiamo brevemente che il giudice civile trevigiano, nella sentenza del 2021, ha ritenuto che nella fattispecie non potesse trovare applicazione l’art. 93 del D.lgs. n.259/03, che consente di chiedere alle società private unicamente l’applicazione del canone unico senza alcun ulteriore onere, in mancanza dei due requisiti, come statuito da ampia giurisprudenza, uno soggettivo e l’altro oggettivo: è stata infatti ritenuta assente sia la manifestazione di volontà dell’ente titolare del diritto reale pubblico e perciò un atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell’Ente di destinare quel determinato bene ad un pubblico servizio sia l’effettiva ed attuale destinazione del bene al servizio pubblico stesso. Con particolare riferimento al requisito oggettivo, il giudice di primo grado aveva espresso due importantissimi principi, per verificare la sussistenza dei presupposti per l’applicazione del canone unico ai rapporti concessori/locatizi di aree destinate all’installazione di infrastrutture di telecomunicazione: – nel primo il giudice di prime cure ha stabilito che le attività di ‘interesse generale’ (come qualificate dall’art. 3 co. 2 D. Lgs. n. 259/2003 ovvero il Codice delle comunicazioni elettroniche) non possano ritenersi equipollenti ad un servizio pubblico in quanto, per il loro utilizzo, i consumatori pagano delle tariffe non calmierate, ma soggette alla concorrenza di mercato, a società con scopo di lucro; – nel secondo principio, altrettanto importante, ha stabilito che per conservare il carattere di bene indisponibile ex art. 826 III comma c.c., presupposto quindi indispensabile per l’applicazione della normativa sul canone unico, il bene dovrebbe essere destinato a servizi di competenza dell’Ente locale territoriale e sicuramente tra questi non rientra certo il servizio di telecomunicazioni, fisse e mobili. Mancando quindi tali presupposti necessari perché trovi applicazione l’art. 93 del D. Lgs. n. 259/03, trattandosi di beni appartenenti al patrimonio disponibile, per il giudice la cessione in godimento a favore della società di gestione della rete di telefonia, al di là del ‘nomen iuris’ che le parti abbiano dato al rapporto, viene ad inquadrarsi nello schema privatistico della locazione e pertanto il canone pattuito è pienamente legittimo ed esigibile. LA SENTENZA DELLA CORTE D’APPELLO La sentenza della Corte di appello di Venezia n.2488/2022, pubblicata il 23/01/2023 conferma i due principi di diritto, come sopra ricordati ed espressi nella sentenza di primo grado, e sviluppa ed approfondisce il ragionamento sulle varie questioni dibattute introducendo alcune ulteriori considerazioni che completano il ragionamento del giudice di primo grado. Conferma anzitutto la necessità, come da costante giurisprudenza della sussistenza del doppio requisito (soggettivo e oggettivo) della manifestazione di volontà dell’ente titolare del diritto reale pubblico e dell’effettiva e attuale destinazione del bene al pubblico servizio per acrivere un bene al patrimonio indisponibile. Con riferimento al requisito soggettivo (necessario per potersi affermare l’obbligo di applicazione del canone unico) il giudice di secondo grado afferma come non sia “soggettivamente” sufficiente la delibera che ha autorizzato la sottoscrizione della convenzione ad imprimere all’area locata il carattere di indisponibilita’, “essendo a tal fine necessario un atto deliberativo proprio che contenga la manifestazione specifica della volontà dell’Ente di destinare proprio quella porzione di suolo ad un uso pubblico”, atto che in questo caso è mancante. In altre parole il Comune dovrebbe espressamente, specificamente e chiaramente essersi pronunciata con un proprio provvedimento sulla natura indisponibile e demaniale dell’immobile concesso. Circa il requisito oggettivo appare interessante la valutazione in concreto che l’area concessa sia “separata” rispetto all’area contigua comunale, anche in modo fisico, con recinzioni di sicurezza e con interdizione ad uso pubblico sportivo da molto tempo, circostanza che ha fatto propendere ai giudici per la perdita della destinazione a pubblico servizio per impossibilita’ a svolgersi attività sportiva, nonostante l’origine indisponibile del bene. Viene inoltre confermato, come statuito in primo grado, che il servizio di telecomunicazione non vale a sostanziare l’uso pubblico sia in quanto tale attività è di interesse pubblico ma non equipollente ad un “servizio pubblico”, per il carattere privatistico e lucrativo del regime di accesso alle telecomunicazioni, sia in quanto viene ritenuto presupposto indefettibile per l’appartenenza al patrimonio indisponibile di un bene, ai sensi dell’art. 826 comma 3 del c.c., la destinazione a servizio pubblico di competenza comunale, tra cui non vi rientra la telefonia. Osserva altresi’ in modo schematico che l’uso del termine “concessione” utilizzato in un contratto è da intendersi nel più ristretto senso di “messa a disposizione” del terreno al contraente e che a (ulteriore) riprova del carattere meramente privatistico dei contratti stipulati, il gestore telefonico non ha partecipato ad alcuna gara tra gestori tipica del vero regime concessorio pubblicistico; tale ultimo ragionamento andrebbe approfondito e sviluppato, visto che raramente gli enti locali hanno utilizzato per la concessione degli immobili per l’installazione di antenne telefoniche procedure ad evidenza pubblica. Molto rilevante e dirimente della questione è il ragionamento della Corte in opposizione alla censura della sentenza di primo grado dei legali del gestore di telefonia – questione molto importante perché metterebbe la parola fine alle pretese dei Comuni circa l’esenzione dalla disciplina del canone unico di tutto il proprio patrimonio disponibile – che sostenevano comunque l’applicabilità “generale” dell’art. 93 CCE a tutti i beni pubblici (indipendentemente dalla loro natura disponibile o indisponibile), riportando a sostegno di tale tesi sia le recenti modifiche normative apportate all’art.93 ed in particolare le disposizioni di cui all’art. 12 D.l. n.33 del 2016, l’art. 8 bis del decreto-legge n.135 del 2018 ( poi convertito nella legge n.12 del 2019) “dirette a chiarire la portata dell’articolo 93 CCE”, sia richiamando giurisprudenza di merito, (in particolare la sentenza Corte d’Appello di Torino nel proc.858/2019) ed infine richiamando anche la legge di bilancio del 2020 che ha individuato il canone per i servizi di pubblica utilità come reti e infrastrutture di comunicazione elettronica, in euro 800 per ogni impianto insistente sul territorio di ciascun ente. Per la Corte, l’articolo 93 CCE non puo’ essere invocato quale norma imperativa, che determini tout court la nullità delle pattuizioni che, anche con riferimento a beni disponibili, stabiliscano un canone superiore a quello che sarebbe determinato secondo i regolamenti TOSAP/COSAP degli enti pubblici, in quanto l’articolo 1 comma 816 della legge numero 160/2019, ha introdotto, a partire dal 2021, un canone unico in sostituzione, tra le altre, della TOSAP/COSAP ed il comma 819 del medesimo articolo individua esplicitamente quale presupposto impositivo del canone “l’occupazione anche abusiva delle aree appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile degli enti e degli spazi sovrastanti o sottostanti il suolo pubblico”. Inoltre, sempre secondo la Corte, l’articolo 831 bis introdotto dall’articolo 40 della legge numero 108/2021, ha fissato la misura di tale canone unico, cioè gli 800,00 euro ad impianto, senza tuttavia variare il presupposto della sua applicazione. A completamento del proprio ragionamento la Corte richiama la giurisprudenza di merito ( ed in particolare da ultimo Corte d’Appello di Trento sentenza n.322022 del 4.3.2022) che ha osservato che gli stessi termini usati nel disposto dell’articolo 93 CCE e nella norma che ne ha dato interpretazione autentica (“imporre” ; “essere soggetti”) presuppongono e contemplano una evidente posizione di supremazia della Pubblica Amministrazione e di soggezione dell’impresa del tutto incompatibili con contratti di diritto privato quali quelli di cui si controverte. Per tale per la Corte l’articolo 93 CCE, è ricondotto nel perimetro dell’esercizio del potere impositivo della pubblica amministrazione, che presuppone l’indisponibilità o la demanialità dei beni, come anche confermato dal richiamo alla TOSAP/COSAP, da cui il Canone unico discende, che riguardano, come unici tributi applicabili, esclusivamente il demanio o patrimonio indisponibile. Da queste considerazioni si evince che l’articolo 93 CCE non può quindi incidere sul contenuto dei contratti che l’ente pubblico stipula con i privati ponendosi sullo stesso piano di questi, con esclusione quindi di ogni potere di supremazia, a nulla rilevando gli eventuali caratteri pubblici dei fini per i quali tali negozi sono stati stipulati ed è quindi corretto ritenere che l’art. 93 CEE non sia applicabile ai beni disponibili del Comune. Infine sulla giurisdizione, statuisce la Corte circa la competenza del giudice ordinario, a prescindere dalla natura giuridica del bene concesso, ai sensi dell’art. 133 lettera b) del codice processuale ammnistrativo vertendosi sui canoni pattuiti tra le parti e non sulla validità di atti ammnistrativi che hanno condotto alla convenzione né su questioni relative all’esercizio di poteri autoritativi dell’ente in ordine alla determinazione dei canoni. La vicenda non è ancora conclusa perché rimane alla società soccombente la possibilita’ di ricorrere al giudice di legittimità, ma la profondità del ragionamento giuridico della Corte d’Appello fa bene sperare per il consolidamento dell’orientamento favorevole agli enti locali e per la correttezza della posizione degli enti locali rispetto alla pretesa sia che i gestori telefonici rispettino i contratti gia’ stipulati (secondo il sempre valido broccardo “pacta sunt servanda”) sia anche di poter contrattare liberamente i canoni, senza il timore costante che tali contratti siano successivamente disattesi. Share on FacebookTweetFollow usSave Navigazione articoli Stralcio delle cartelle fino a 1.000 euro: la questione della competenza negli enti in dissesto finanziario (G.Vinciguerra) Corte dei Conti. Indennità di funzione piena agli amministratori comunali lavoratori autonomi